Avevo l’impressione di non essere capito, di essere fuori luogo, mi sentivo inadeguato, incerto e titubante in mille e più situazioni. Cercavo disperatamente quel senso di sicurezza di cui mi sentivo mancante, quel senso di appartenenza che desideravo da sempre, che percepivo negli altri ma non in me. Là fuori tutti sembravano fieri, sicuri di sé, baldanzosi e pronti ad ostentare capacità, competenze e fierezza. Io no! Io non riuscivo a sentirmi parte di una relazione, di un gruppo, non ero in grado di reggere gli sguardi altrui, per me talmente pesanti, da non essere sopportabili.
Mille pensieri aggrovigliati dentro la mia testa mi portavano continuamente fuori carreggiata lasciandomi nella totale disperazione; l’ansia e la confusione prendevano il sopravvento, era come stare in una giostra che gira velocemente senza riuscire a premere il pulsante dello Stop. La sensazione di essere una nullità mi accompagnava ovunque, un po’ come essere una moneta arrugginita che nemmeno un mendicante avrebbe speso del tempo a raccogliere. Poi è arrivata Lei, la solitudine, compagna dei miei risvegli, seduta al mio fianco alle lezioni dell’università, a rimboccarmi le coperte la sera prima di addormentarmi; sempre insieme, continuamente e senza sosta io e Lei, Lei ed io.
“Non sei più un bambino, sei un giovane uomo” mi dicevo, “dovresti essere in grado di affrontare la vita, le persone e le relazioni”, “forse c’è qualcosa che non va dentro di te”, “forse hai paura di guardarti dentro e preferisci nasconderti”, “se non sei in grado di fronteggiare il mondo che futuro avrai?” mi ripetevo.
Non è un romanzo, non è nemmeno una storiella, è il dolore raccontato in una stanza di psicoterapia, un contesto sicuro e accettante, che da voce alla sofferenza. Il dolore muto e sepolto sotto al tappeto arrugginisce, quello condiviso permette di fare emergere quelle parti di un Sé infantile fragile e bisognoso ma, autentico e di valore. Diamo voce allora a quel bambino di allora, prendiamo la macchina del tempo e torniamo indietro negli anni, ancora e ancora fino a che si può. Quel bambino, se avesse potuto, avrebbe voluto dire:
- Non mi piace essere umiliato in pubblico, se lo farai da grande non saprò reggere lo sguardo altrui
- Se scegli sempre al posto mio crescerò incapace di prendere delle decisioni
- Se mi paragoni agli altri bambini facendomi uscire perdente crederò di esserlo
- Se risolvi sempre i miei problemi senza farmi provare e sbagliare penserò di essere un incompetente
- Se non mi aiuti a dare un nome alle mie emozioni non sarò in grado di ascoltarmi
- Se scarichi la tua rabbia e la tua frustrazione su di me crescerò con un senso di colpa che mi accompagnerà ovunque
- Se dubiti di me anche io imparerò a dubitare di me stesso
- Se mi prendi in giro per ciò che mi piace perderò la fiducia in me stesso
- Se mi dici: “non capisci niente”, “sei stupido”, “non sei capace” mi aiuterai a diventare esattamente quello
COSA SONO LE CREDENZE E COME FUNZIONANO?
Ognuno di noi nasce come se fosse la pagina bianca di un libro tutto da scrivere che potrebbe diventare un bel romanzo oppure un horror. Gli altri significativi, ovvero i genitori, ma anche altre figure appartenenti al contesto di vita del bambino, cominceranno fin da subito a dipingere tracce su questo candido foglio e, giorno dopo giorno, il Sé dell’infante, comincerà a strutturarsi con le credenze che gli verranno attribuite.
I bambini sono sprovvisti di armi e indifesi rispetto a ciò che arriva loro addosso; frasi, parole, comportamenti, espressioni e sguardi verranno indossati senza il minimo senso critico, accolti a braccia aperte anche quando creano ferite. Sebbene ciò che arriva dall’esterno possa essere un fardello pesante, arrivando da altri significativi assume un importanza basilare, ha quindi il grande merito di risuonare familiare e conosciuto; ciò che è conosciuto diventa prevedibile e perciò rassicurante ed è meglio muoversi in acque sporche ma conosciute che in acque limpide ma sconosciute.
L’infanzia è dunque il terreno fertile per lo sviluppo delle credenze di base, ovvero di convinzioni fondamentali e assolute riguardo se stessi, gli altri e il mondo che, diventando parte del concetto di Sé, verranno usate come bussola per valutare tutte le situazioni, i pensieri e le azioni; quanto più saranno negative e strutturate tanto più creeranno sofferenza emotiva e psichica. Le credenze di base negative si dividono essenzialmente in due grandi categorie: quelle associate all’ inadeguatezza (sono incapace, debole, impotente, vulnerabile, bisognoso, inutile, un fallimento, ecc) e quelle associate alla non amabilità (non sono degno d’amore, sono diverso, imperfetto, non sono bravo abbastanza, sono destinato ad essere rifiutato, ecc), (Beck, 1995).
Alcune persone hanno credenze che cadono in una delle due categorie, altri hanno credenze di base in entrambe le categorie. Quando una credenza viene attivata la persona tende a filtrare tutte le informazioni che la supportano, non è in grado di riconoscere le informazioni che la smentiscono oppure vengono distorte. Ne consegue che, in determinate situazioni, le credenze si attivino automaticamente, come fossero delle lampadine che muovono i fili distorti di una marionetta spesso ignara di ciò che sta accadendo.
LA SVOLTA: CENTRARSI
Centrarsi significa soprattutto cominciare a considerare te stesso come un altro significativo, imparare ad apprezzare ciò che sei autorizzandoti ad attribuirti quel valore personale che mai ti è stato concesso di avere prima. Centrarsi significa diventare consapevole che, tu e solo tu, sei il padrone di te stesso e che, dentro di te, hai tutte le potenzialità e le capacità per modificare il disegno che è stato dipinto sulla tela della tua vita. Occorre utilizzare il malessere in senso ristrutturante cogliendo la possibilità di un cambiamento. Il primo passo è sempre la conoscenza di te, la consapevolezza di quali credenze ti sono state attribuite, il riconoscimento dei contenuti di quella vocina interiore che ti accompagna ogni giorno come un rumore di sottofondo al quale ti sei abituato. Abituandosi al suo chiacchierio critico quotidiano si finisce per smettere di chiedersi se quei giudizi siano fondati oppure no rischiando di prenderli per buoni in modo acritico, con grave danno per la tua autostima.
- Quali sono le lampadine che si accendono e ti fanno soffrire?
- Che cosa dice il tuo dialogo interno nei momenti di sofferenza?
- Quali “voci” critiche ti accompagnano?
- Da dove arrivano?
- A chi appartengono?
- Chi ti diceva così?
- Corrispondono davvero alla realtà?
- A quale mittente dovranno essere rispedite indietro in quanto non di tua appartenenza?
Individuare il tuo dialogo interno è l’aspetto più importante della faccenda, ciò significa che quelle vocine sono state stanate, sono uscite allo scoperto e le puoi guardare, mettere in discussione, decidere quanto peso attribuire loro, scegliere di ascoltarle oppure no. Molto probabilmente torneranno a farti visita ancora e ancora, ma, avendole individuate, hai iniziato a togliere loro un po’ di potere. Sono voci che arrivano da lontano, è vero, ma lo scopo di questa autoriflessione non vuole essere quello di trovare colpevoli o infliggere punizioni ma quello di uscire dall’oscurità e dall’inconsapevolezza, unico primo passo verso il cambiamento.
I cambiamenti importanti nella vita delle persone passano sempre attraverso la sofferenza, la delusione e lo scoraggiamento. Il dolore ci insegna a reagire e a rimetterci in gioco per ritrovare una nuova strada e una nuova organizzazione di vita e, una volta imboccata la strada della consapevolezza, non è più possibile tornare indietro.
Manuela Ferrara – Psicologo Psicoterapeuta